Il destino

Sono nato sotto il segno dello scorpione, perché così ha voluto il destino. E il destino, lo sappiamo, sa calcolare molto bene le sue traiettorie.

Sono nato sotto il segno dello scorpione come Voltaire, padre dell’illuminismo. Sono nato sotto il segno dello scorpione come Pelè, il fuoriclasse che ha cambiato la storia del calcio. Sono nato sotto il segno dello scorpione come Neil Young, il cantautore canadese che ha regalato al mondo una manciata di canzoni immortali.

Sono nato sotto il segno dello scorpione come Gerhard Müller, il più grande bomber di tutti i tempi. Sono nato sotto il segno dello scorpione come José Saramago, uno scrittore che ha fatto sognare e riflettere milioni di persone. Sono nato sotto il segno dello scorpione come la Juventus, la squadra che mi ha fatto battere il cuore fin da bambino e che dal 2006 non mi “appartiene” più. Sono nato sotto il segno dello scorpione come Alessandro Del Piero, l’uomo che ha collezionato più presenze e reti con la maglia bianconera. Sono nato sotto il segno dello scorpione come la giornata del gatto nero, iniziativa che serve a demolire superstizioni demenziali.

E’ stato quindi il destino ad aprire la mia mente, a farmi amare svisceratamente il calcio, a farmi apprezzare la “vera” musica, quella che genera pathos, favorendo la creatività. E’ stato il destino a condurmi nei boulevard della scrittura, passione purissima, che accende la mia esistenza. E’ stato il destino a farmi “dipendere” dai gatti. E oggi voglio proprio ringraziarlo. Il destino.

Valentino Rossi e i veri campioni…

Nel mio Pantheon virtuale c’è posto solo per Nelson Mandela, Martin Luther King, Gandhi, Albert Sabin, Alan Turing, Tim Berners-Lee, Cristiaan Barnard, Albert Einstein, Sandro Pertini e pochissimi altri. Persone che hanno migliorato il mondo, rendendolo un po’ meno squallido.

Con questi presupposti, non posso che pretendere tanto anche dai personaggi che affollano il mondo dello sport. Perché un campione, per quanto mi riguarda, deve esse tale anche nella vita. Come l’immenso Gaetano Scirea. Come Gigi Riva, che proprio in questi giorni ha compiuto 71 anni. Come Andrès Iniesta. Come Jimmy McGrory, l’uomo che ha rinunciato alla ricchezza per amore del suo Celtic. E come Dino Zoff che, regalandomi la prefazione del mio ultimo libro, mi ha dato la gioia più grande della mia vita professionale.

Perché i veri campioni sanno distinguersi per stile, fair play e semplicità anche nella vita di tutti i giorni. Perché i veri campioni non hanno bisogno di troppe parole per manifestare il proprio carisma. Perché i veri campioni sanno vincere con classe e perdere con dignità. Perché i veri campioni rispettano le regole anche fuori dal campo. Che volete farci? E’ una questione di carattere: siccome pretendo parecchio da me stesso, mi aspetto molto anche da chi è stato gratificato da madre natura. Per questo e altri motivi non riesco a comprendere la mitizzazione di Valentino Rossi, un grande sulla pista, certo. Ma solo un furbo e arrogante mestierante nella vita di tutti i giorni. Uno che non sa vincere con classe e che accampa mille scuse quando perde. Proprio come Renzi.

I nostri “amici” di Facebook

I nostri amici di Facebook si dividono in 5 precise categorie.

1. Gli estimatori. Quelli che partecipano a quasi tutti i nostri post, cliccando mi piace e inserendo commenti. Queste persone ci stimano a tal punto che, per rispetto, fanno finta di niente quando scriviamo qualche stronzata.

2. I curiosi. Quelli che leggono tutto quello che scriviamo ma, chissà perchè, non intervengono mai. Perchè forse considerano troppo confidenziale mettere un mi piace sulla nostra bacheca.

3. I professori. Quelli che osservano e scrutano i nostri post con sguardo severo, sperando di cogliere errori grammaticali o gaffes alla Mike Bongiorno. Alla prima occasione eccoli pronti a intervenire, usando la classica matita rossa della maestrina.

4. I multimediali. Quelli che commentano o mettono mi piace solo se postiamo video o foto. Non importa se il soggetto ripreso ha la stessa avvenenza di Alvaro Vitali o la figlia di Fantozzi, il classico “bello/a” è già pronto. Come il plastico di Cogne.

5. I dormienti. Sono le persone che si sono iscritte a Facebook dopo aver fatto una seduta spiritica con Prodi. Ci hanno chiesto l’amicizia e poi sono sparite come le rughe di Barbara Bouchet. Stazionano lì, nella lista dei nostri amici, inutili come i programmi di Marzullo. Meglio allertare la Sciarelli.

In memoria di Jimmy Johnstone

Il folletto scozzese, simbolo del Celtic, se n’è andato un giorno di Marzo del 2006, piegato da una malattia che ha colpito diversi calciatori, la SLA. In quei 157 centimetri di classe, velocità e vigore, era racchiuso lo spirito del Celtic, la squadra cattolica di Glasgow, protagonista di due finali di Coppa Campioni e dotata di una divisa unforgettable. Quella maglia a strisce orizzontali bianco-verdi, è stata la seconda pelle di Jimmy, che con il club scozzese ha messo insieme 515 presenze complessive, impreziosite da 138 reti. Arrivato nel settore giovanile del Celtic a 17 anni, proveniente da una piccola città del South Lanarkshire, il destino di Jimmy si incrociò con quello di Jock Stein, il tecnico che avrebbe portato i Bhoys sul tetto d’Europa. Johnstone fu uno degli elementi imprescindibili di quella squadra, interamente composta da calciatori provenienti dal vivaio: due soli goal in quella edizione della Coppa, ma una selva di assists per i compagni. Meno corposo il suo contributo alla nazionale scozzese, con il Mondiale del 1974 vissuto solo nei panni di turista.
Tratto dal libro “Coppa Campioni Story”, Curcio editore

Incapaci di successo (3).

INCAPACI DI SUCCESSO IN TELEVISIONE

La tv generalista italiana, più deprimente di un film dei fratelli Vanzina, è altamente consigliata alle persone che soffrono di stitichezza. Trovare un programma guardabile equivale a vincere alla lotteria senza comprare il biglietto. Pertanto ci sembra giusto dare un suggerimento agli anziani che ancora si ostinano a guardarla: molto meglio seguire i lavori stradali. Perché almeno nei cantieri non c’è la pubblicità. Fuori classifica per motivi di pura decenza Mario De Filippi e Maurizia Costanzo, i maggiori responsabili di un degrado che non conosce Limiti. E nemmeno Antonio Ricci. Ma ecco la nostra top five.

5) Alba Parietti/Valeria Marini. Non sanno cantare, non sanno recitare, non sanno ballare, hanno una cultura da Scuola Radio Elettra e se la tirano come e più di Mourinho. Tutte qualità molto apprezzate nel mondo capovolto della tv italiana. Qualcuno maligna che le due presunte soubrette abbiano perso molti soldi al Casinò. Poi si sono rifatte.

4) Amadeus/Carlo Conti/Fabrizio Frizzi. Una volta c’era Mike Bongiorno, l’unico che riusciva a dare un senso al quiz. Adesso ci sono Carlo Conti, Fabrizio Frizzi e Amadeus, tre tizi che, in un Paese serio, al massimo potrebbero presentare le loro scuse ai telespettatori. Messi insieme non riescono ad eguagliare il carisma di Scilipoti. Proprio per questo fanno da traino al tg1. Tra l’altro è difficile distinguerli. Siamo sicuri che non siano la stessa persona?

3) Fabio Caressa. Le sue telecronache ansiogene abbinate a quell’aria da nerd di borgata, hanno convinto molti fanatici del calcio a spostare il loro interesse verso il curling. Racconta la partita come fosse un radiocronista, dimenticando un piccolo particolare: le duemila telecamere presenti sul campo consentono allo spettatore, mediamente più competente di lui, di vedere anche i replay dei peli superflui di Quagliarella e Biondini. In un altro Paese, uno così sarebbe stato obbligato a nascondersi dentro le sopracciglia di Bergomi, invece l’hanno promosso direttore di Sky Sport. Come se qualcuno invitasse Valerio Scanu al festival di Woodstock.

2) Barbara D’Urso. I suoi programmi sono molto richiesti. A Guantanamo. E’ la signora delle lacrime pomeridiane. Prefabbricate. E delle interviste in ginocchio a Renzusconi, il mostro politico che ha portato l’astensionismo al 50%. E’ la degna espressione di un Paese che rimpiange ancora Wilma Goich, Toto Cutugno e Alvaro Vitali.

1) Ilaria D’Amico. Non capisce nulla di calcio, non sa parlare, pone agli ospiti domande meno ficcanti di un discorso di Luca Giurato, eppure è riuscita a ritagliarsi un posto da protagonista nella tv satellitare. Perché in Italia la bella presenza conta mille volte più della competenza. L’abbiamo messa al primo posto perché, rispetto alla D’Urso, gode di buona, anzi buonissima stampa. Meno male che l’amico del tabaccaio ha provveduto a metterla incinta. Dando l’opportunità alla simpatica signora di svolgere il lavoro che le riesce meglio: fare la compagna di Buffon.

Incapaci di successo (2).

INCAPACI DI SUCCESSO NEL CALCIO

Stendendo un velo, più o meno pietoso, su Tavecchio, Beretta ed i tanti dirigenti – sempre gli stessi – che stanno al football come Rosanna Fratello sta alla musica, proviamo a scovare i casi più clamorosi di incapaci di successo. Ovviamente fuori classifica Cassano e Balotelli, meno colpevoli di chi ha avuto l’acume di metterli sul piedistallo.

5) Mattia Destro. Ha più tatuaggi che goal all’attivo. Eppure, come Figaro, tutti lo vogliono e tutti lo cercano. Anche una fortissima squadra spagnola. Che però vorrebbe ingaggiarlo giustamente come barbiere. Di Siviglia.

4) Riccardo Montolivo. Passa ancora per giovane promessa, anche se è quasi coetaneo di Pippo Baudo. La sua regia illuminata è una garanzia: per gli avversari del Milan. Ultimamente passa più tempo in infermeria che in campo: l’altro giorno si è infortunato giocando alla Play Station con Abate.

3) Andrea Stramaccioni. L’Udinese gli ha appena intitolato una strada: via Stramaccioni. Lui non ha fatto una piega, trovando subito lavoro a Fox Sports. Come soprammobile. Quando spiega con aria professorale il suo 3-5-2, anche i gondolieri di Venezia cambiano canale.

2) Claudio Ranieri. Il principio per cui qualsiasi cosa possa andare male lo farà, – meglio conosciuto come Legge di Murphy – è ispirato alla carriera del noto allenatore (?) romano. Una sciagura vivente. Gli danno in mano una Mercedes e lui la trasforma in una Multipla. Gli danno in mano una Multipla e lui la trasforma in un’Octavia. Come il piazzamento che ottiene in classifica. Quando va bene.

1) Zdenek Zeman. Primo posto inevitabile come il plastico di Bruno Vespa. Ormai, per avere qualche punto, deve recarsi al pronto soccorso. I suoi estimatori, un tempo numerosi, sono spariti dalla circolazione come i soldi di Cecchi Gori. Naturalmente i presidenti che hanno esonerato Zeman avrebbero tenuto il boemo a vita nonostante i disastri combinati in panchina. Se è stato invece licenziato in dieci occasioni, la colpa è solo di Luciano Moggi, l’uomo che ha impedito a Zeman di seguire le orme di Rinus Michels e Sir Alex Ferguson. Intanto si profila all’orizzonte l’undicesimo tonfo, con la canzone di Ivan Graziani (Lugano addio) che impazza su Youtube.

Incapaci di successo (1)

Incapaci di successo (1).

Qualcuno li definisce sopravvalutati, io preferisco chiamarli incapaci di successo. Sono quei personaggi che, pur avendo meno talento di Jimmy il fenomeno, sono comunque riusciti a costruirsi un’immagine sfruttando le zone d’ombra di un Paese che ha sempre rinnegato la meritocrazia. Raccomandazioni e agganci politici aiutano a superare la linea dell’anonimato, ma non bastano a spiegare certe carriere. Probabilmente c’è dell’altro. Tipo la disinformazione di una larga parte dell’opinione pubblica, facilmente addomesticabile e condizionabile dai peggiori media del mondo. Quelli che non possono rivolgere una critica a Sky (per citare un’azienda a caso) solo perché l’emittente satellitare inonda di pubblicità giornali e tv. In questi giorni, prendendo spunto da una discutibilissima classifica stilata dal Telegraph, quotidiano inglese, anche il Fatto Quotidiano ha cavalcato l’argomento, trascurando colpevolmente qualche nome. Ad esempio, non abbiamo visto nella lista l’icona del nulla, più conosciuta come Ilaria D’Amico. E allora, spinto da un irrefrenabile desiderio di giustizia, ho pensato di compilare una mia personalissima graduatoria dividendo gli incapaci di successo in quattro precise categorie: politica, calcio, televisione e musica.

Ovviamente, dato che l’Italia abbonda di incapaci di successo, sarà mia premura segnalare i casi più eclatanti in ciascun settore. Cominciamo dalla politica.

INCAPACI DI SUCCESSO DELLA POLITICA

Tralasciamo le macchiette come Razzi e la Santanchè, la vasta schiera di pregiudicati a piede libero, e concentriamoci sui veri disastri.

5) Maurizio Gasparri. Ha lo stesso appeal di una mosca tse tse e la competenza politica di Sandy Marton. Anzi, quest’ultimo avrebbe senz’altro scritto una legge migliore in materia di assetto del sistema radiotelevisivo.

4) Laura Boldrini. Ha sempre quell’espressione solenne da maggiordomo inglese di Buckingham Palace che distribuisce ordini perentori a sguatteri e domestiche. Simpatica come Meryl Streep nel “Il diavolo veste Prada”, è così illuminata politicamente da credere ancora alle quote rosa.

3) Angelino Alfano. Come ministro dell’Interno ha fatto molto. Per il Kazakistan. Meno carismatico di Paolo Mengoli, ha con la politica lo stesso rapporto che Bruno Pizzul intrattiene con la fotosintesi anossigenica.

2) Matteo Renzi, sinonimo di Silvio Berlusconi. L’amico di Mubarak gli ha fatto fare le ossa nelle reti Mediaset, indicandogli la strada giusta per farsi largo in Italia: spararle grosse. Evitando accuratamente di far seguire i fatti alle parole. L’allievo ha poi superato abbondantemente il maestro, non solo nelle panzane. Vedere alla voce “qualità delle persone che compongono la squadra di sgoverno”.

1) Giorgio Napolitano. Bertolt Brecht diceva “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Noi diciamo sventurato il Paese che si fa dettare l’agenda da un novantenne che non ha voluto dirci la verità sulla trattativa Stato-Mafia. Dopo aver addormentato due generazioni di italiani con i suoi discorsi di fine anno, l’incapace di successo numero uno continua a pontificare dal basso della sua statura morale.

L’uomo del Maracanazo

Alcides Eduardo Ghiggia, l’uomo che entrò nella leggenda del calcio dalla porta di servizio. Accadde un pomeriggio d’estate di 64 anni fa, nel monumentale Maracanã di Rio de Janeiro, di fronte a 173 mila testimoni. Increduli. Perché il copione di quella giornata era già scritto da tempo: il formidabile Brasile di Flavio Costa doveva vincere il “suo” Mondiale. Ma la piccola ala destra uruguaiana trovò il modo di mandare all’aria la scaletta, prima servendo a Schiaffino la palla del pareggio. E poi infilando personalmente in rete il pallone che fece piangere il Maracanã. Un goal che rischiò di interrompere la carriera di Ghiggia, uscito malconcio da un incontro ravvicinato con alcuni supporters brasiliani, inviperiti per la sconfitta. Lo spiacevole episodio costò un lungo periodo di convalescenza all’attaccante del Peñarol, costretto a saltare quasi tutta la stagione successiva.
Carattere estroso e fumantino, Ghiggia non si distingueva solo per i dribblings e le finte: una volta, vistosi annullare un goal, non trovò niente di meglio che aggredire l’arbitro, responsabile di lesa maestà, beccandosi 8 mesi di squalifica. Altro stop forzato e tanto tempo per pensare ad altro. Tipo un trasferimento in Europa.
L’offerta giusta arrivò da Roma, sponda giallorossa. Ghiggia si ambientò in fretta, trascorrendo ben otto anni nella Capitale. Naturalizzato italiano, giocò anche come oriundo nella nostra Nazionale, senza molta fortuna. Prima di fare ritorno in patria, disputò una stagione nelle file del Milan. Poche apparizioni, ma uno scudetto da aggiungere al suo palmarès personale. L’uomo che fece piangere il Maracanã ha compiuto da poco 88 anni. Periodicamente, aggrappato alla ringhiera dei ricordi, ascolta la registrazione radiofonica del suo goal più famoso. E, ogni volta, si commuove.

Tratto dal libro “World Cup Story, Curcio editore
Ghiggia è morto ieri, nel 65° anniversario del Maracanazo, all’età di 89 anni.