Ieri sera il Manchester City ha finalmente vinto la Champions, riuscendo a centrare il triplete. Ma il triplete l’ha fatto anche il tanto strombazzato calcio italiano delle ultime settimane: tre finali e tre sconfitte. Tanta retorica spesa da un giornalismo sportivo degnamente rappresentato dai Caressa e dagli Zazzaroni, per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.
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L’utopia degli spiriti liberi
Il mio nuovo libro…
The winner is…
Negli ultimi quattro anni Lionel Messi ha avuto un rendimento non esaltante (beninteso per uno come lui). La ragione? Il suo cuore e la sua testa erano già a Qatar 2022: l’ultima occasione per eguagliare Maradona.
Infatti, come avevo previsto, in questa edizione dei Mondiali si è visto un Messi stratosferico.
Motivato, ispirato, trascinante.
Il titolo l’ha vinto lui, con la sua immensa classe.
Subito dopo l’hanno vinto Emiliano Martinez, Julio Alvarez ed Enzo Fernandez.
Menzione particolare per Angel Di Maria, sempre a suo agio nelle finali.
Tu chiamale se vuoi…sensazioni.
I quarti di finale sono andati più o meno come dovevano andare. Anche se il Giappone ha sfiorato l’impresa, exploit invece riuscito al Marocco. A fare la differenza sono stati i calci di rigore: saperli battere aiuta, ma anche avere un portiere all’altezza della situazione non guasta.
Come hanno ampiamente dimostrato Livakovic e Bounou, tra l’altro avvantaggiato dal fatto di giocare nella Liga e di conoscere quindi le abitudini dei tiratori spagnoli.
Ora due giorni di tregua, poi si entra nel vivo della competizione.
Le mie sensazioni?
Eccole.
Passano alle semifinali Argentina, Brasile, Inghilterra e Portogallo.
La finale sarà Argentina-Inghilterra.
Con Messi e company che solleveranno il trofeo.
Non sono pronostici, ma sensazioni.
Quelle sensazioni che mi hanno consentito di azzeccare la vincente di Brasile 2014, (dopo aver addirittura centrato la finale Germania-Argentina) e di Russia 2018.
E il proverbio dice che non c’è due senza tre…
Per adesso vince la noia…
Terminata la fase a gironi, possiamo stilare un primo bilancio del Mondiale più discusso di sempre. Competizione caratterizzata da sorprese più o meno clamorose, gioco noioso, arbitraggi rivedibili, aggravati dall’invadenza del Var, e recuperi più lunghi di Via col vento.
Le nostre previsioni sono state deludenti: 9 squadre qualificate azzeccate su 16. Ma, siamo sinceri: chi poteva mettere in conto l’eliminazione di Germania e Belgio? E vogliamo parlare della Danimarca, considerata dal sottoscritto la possibile rivelazione del torneo?
Per comprendere appieno l’imprevedibilità di Qatar 2022, basta una statistica: tutte le big hanno perso almeno una partita. Vado a memoria, ma credo non sia mai accaduto nella storia della Coppa del Mondo.
Ora si entra nel vivo e, da questo momento, non ci sarà più spazio per calcoli e prudenza.
Dopo aver ribadito il mio pronostico (Argentina), ecco le mie sensazioni sugli ottavi di finale.
Olanda-USA – Olanda
Argentina-Australia – Argentina
Francia-Polonia – Francia
Inghilterra-Senegal – Inghilterra
Giappone-Croazia – Giappone
Brasile-Sud Corea – Brasile
Marocco-Spagna – Spagna
Portogallo-Svizzera – Portogallo
Pronostici mondiali…
Benvenuti nell’angolino dell’indignazione. Tutti a stracciarsi le vesti per il Mondiale assegnato ignobilmente al Qatar, la violazione dei diritti umani, gli operai morti e tutto il resto. C’è però da chiedersi dove si trovassero lor signori quando i mercanti entravano nel tempio riducendo a un business sconsiderato il gioco più bello del mondo.
Sono anni che denuncio le magagne di un football cinico e spietato, nella totale indifferenza di un Sistema che sguazza allegramente nell’illegalità legalizzata.
Quindi fatemi un favore, mettetevi in tasca il vostro moralismo tardivo e giratevi dall’altra parte.
Come avete sempre fatto.
Esaurita la premessa, veniamo al dunque.
Avendo azzeccato il pronostico degli ultimi due Mondiali (nel 2014 indicai come vincente la Germania, nel 2018 puntai tutto sulla Francia) forse ho qualche titolo per provarci un’altra volta.
Stavolta, per una serie di ragioni, dico Argentina.
Il motivo principale?
Per Messi è l’ultima occasione per eguagliare Maradona e scrivere il suo nome nell’albo d’oro della competizione.
Vincere non sarà facile, visto il grande equilibrio.
Ecco le mie sensazioni per quanto riguarda la fase iniziale, non prima di aver menzionato la Danimarca come rivelazione del torneo.
Cominciamo con gli 8 gruppi.
Le mie favorite.
Gruppo A: Olanda, Senegal
Gruppo B: Inghilterra, Galles
Gruppo C: Argentina, Messico
Gruppo D: Francia, Danimarca
Gruppo E: Germania, Spagna
Gruppo F: Croazia, Belgio
Gruppo G: Brasile, Serbia
Gruppo H: Portogallo, Uruguay
In seguito indicherò le possibili vincenti delle gare a eliminazione diretta.
L’ultimo passaggio…
Ultimamente, leggendo le interviste di grandi ex calciatori (tipo Gigi Riva) e avendo avuto la fortuna di parlarne direttamente con Gianni Rivera, ho capito che i fuoriclasse del passato non amano il football odierno.
Proprio come il sottoscritto.
Tanti inutili passaggi laterali, troppi palloni giocati all’indietro, poca velocità di pensiero e zero dribbling.
E poi vogliamo parlare del potere acquisito dal portiere, coinvolto con i piedi più del regista?
Manca soprattutto la visione di gioco panoramica, la capacità di trovare il fatidico ultimo passaggio: quello che ti smarca davanti al portiere avversario.
Ecco, tolti quei quattro o cinque top player in grado di illuminare il gioco, oggi l’ultimo passaggio è diventato un optional introvabile.
Anche per questo il calcio di oggi appassiona meno di un comizio di Enrico Letta.
Da Dixie Dean a Haaland…
Tratto dal mio libro “La mia vita per un goal”, 2016, Luoghi Interiori.
La storia del calciatore che ha segnato più reti in una stagione del massimo campionato inglese.
Record che, scommetto, entro qualche anno verrà battuto da Haaland.
Racconto la storia di Dixie Dean come se fosse lui a parlare.
Leggetela, vi emozionerà.
Ognuno ha la sua forma di dipendenza. Dostoevskij era schiavo dal gioco, il Dottor House non riusciva a fare a meno del Vicofin ed io, invece, vivevo esclusivamente per la musica del goal. Segnare era il mio farmaco, l’unica cura contro l’insopportabile ronzio del dolore. Il mio nome era William Ralph Dean, ma quasi tutti mi chiamavano Dixie. Forse prendendo spunto da quella canzone che ha lambito la mia infanzia, oppure per la mia carnagione scura, che mi faceva assomigliare allo Zio Tom del famoso romanzo di Harriet Beecher Stowe.
Sono nato a Birkenhead, una città che si trova sulla sponda ovest del fiume Mersey. Mio nonno, Ralph Brett, guidava il treno reale durante il regno di Giorgio V. Anche mio padre William era un ferroviere, mentre mia madre Sarah si arrangiava come cameriera. Io ero l’ultimo di cinque figli e la mia adolescenza è trascorsa in parte sulle macerie della prima guerra Mondiale. Andare a scuola non mi piaceva, così ho cominciato presto a rendermi utile. Inizialmente ho fatto il lattaio, poi il montatore. Lavoravo di notte per poter giocare a pallone di giorno. Io ed il football: un colpo di fulmine. La folgorazione avvenne all’età di otto anni: mio padre, tifoso dell’Everton, mi portò a vedere una gara dei ““Toffees” ed io, da allora, non ho più avuto dubbi. Avrei fatto il calciatore. Più precisamente il centravanti.
A sedici anni ero già titolare del Tranmere, terza divisione inglese. Con i “Superwhite Army”, durante un’ amichevole, ebbi un brutto incidente di gioco, che comportò l’asportazione di un testicolo. Un “contrattempo” che ha solo rallentato la mia corsa. Nella mia seconda annata con Rovers segnai ventisette goals in altrettante partite. Arrivammo penultimi, ma io riuscii ugualmente a varcare la linea immaginaria che separa l’anonimato dalla notorietà. Mi cercarono soprattutto Arsenal, Newcastle ed Everton. Per una questione puramente sentimentale scelsi i “Toffies”, che offrirono comunque la sostanziosa cifra di 3000 sterline. Io, d’accordo, con mio padre, donai il mio compenso all’ospedale di Birkenhead. Nella mia prima season completa con l’Everton misi a segno ben trentadue reti, consentendo alla squadra di scalare ben sei posizioni in classifica rispetto alla stagione precedente. Ero raggiante, ma dietro l’angolo mi aspettavano altre sorprese negative. Nell’estate del 2006 ebbi un gravissimo incidente in moto. Arrivai all’ospedale con il cranio fratturato ed i medici, dopo avermi sottratto miracolosamente alla morte, furono categorici: “Questo ragazzo non potrà mai più giocare a football”. Ma io ero un tipo tosto. Così, con uno stoicismo degno di Zenone, dopo soli tre mesi, ritrovai il campo. Più forte di prima.
Nel 1927/28, dopo aver dimostrato quanto sapessi soffrire in nome del football, decisi di bussare al portone della leggenda. Mi aprirono subito, perché quell’anno mi caricai sul groppone l’Everton, portandolo alla conquista dello scudetto. Il terzo titolo dei “Toffees” aveva il profumo dei miei sessanta goals, tuttora record della massima divisione inglese. Prendete nota: cinque dozzine di reti sui centodue complessivi realizzati dalla mia squadra. Pensate che, nell’ultima partita del campionato, ero a quota cinquantasette, due in meno di George Camsell, attaccante del “Boro”, che però aveva ottenuto quell’exploit in seconda divisione. Io potevo sorpassarlo ma, per riuscire nella titanica impresa, avrei dovuto siglare una tripletta nel match contro l’Arsenal di Herbert Chapman. Quel pomeriggio mi presentai al gran gala con lo smoking d’ordinanza. Finì 3-3 ed io centrai clamorosamente l’obiettivo.
Io e l’Everton: un amore sconfinato. Nella stagione 1930/31, nonostante il mio status di top player, non esitai un solo istante a a seguire i “Toffies” in seconda divisione. Abituato a superare difensori d’alto lignaggio, non feci molta fatica ad aggiudicarmi il titolo di capocannoniere della Division Two. Ritornammo pomposamente nella massima serie e da neopromossi, vincemmo il quarto scudetto. I miei quarantaquattro goals, oltre a farmi rivincere la classifica marcatori, servirono a tenere a debita distanza l’Arsenal. Il 29 Aprile 1933 conquistammo anche la Coppa d’Inghilterra, battendo 3-0 in finale il Manchester City. Inutile dire che il sottoscritto infilò il suo nome nel tabellino del match. In quel periodo, qualche ora prima di scendere in campo, i calciatori erano soliti abbuffarsi con abbondanti razioni di trippa e cipolle. Io, invece, affrontavo le partite dopo essermi scolato uno sherry con dentro due uova. Forse, anche per quel vezzo, ho segnato trentasette triplette in carriera.
All’Everton ho donato gli anni più luminosi della mia traiettoria calcistica. Quelli in cui il mio colpo di testa, pezzo forte di un repertorio vario e scintillante, era letale come il morso di un cobra. Nonostante non arrivassi al metro e ottanta, riuscivo a staccare là dove nasce l’arcobaleno, con uno stile che molti hanno definito artistico. La mia popolarità era tale che un detenuto tedesco durante la seconda guerra Mondiale maledisse il mio nome insieme a quello di Winston Churchill.
Con la Nazionale ho giocato solo sedici partite, saltando il Mondiale del 1930 per lo “splendido” isolamento dell’Inghilterra, ancora alle prese con il complesso di superiorità di chi sa di aver inventato il football. Ho esordito a vent’anni appena compiuti, contro il Galles, autografando una doppietta. Ho concluso la mia carriera internazionale nel 1931, con un goal alla Spagna.
“Dixie Dean è come Beethoven, Shakespeare e Rembrandt”. Queste parole, pronunciate da Bill Shankly, formidabile manager del Liverpool, mi hanno sempre riempito d’orgoglio. Così come mi ha intenerito vedere la mia statua in bronzo, disegnata dallo scultore Tom Murphy, fuori da Goodison Park. Io ho il pallone sotto il braccio e sono attorniato dalle scritte “Footballer, Gentleman, Evertonian”.
Nel 1931 ho sposato la mia Ethel. Abbiamo avuto quattro figli. I tre maschi e mia moglie se ne sono andati prima di me. Ethel ha avuto un infarto nel 1974 e, da quel momento, la mia salute, già malferma, si è aggravata. Ho lucidato i ricordi di una vita in casa di mia figlia Barbara. Poi, il giorno 8 Marzo del 1980, mi sono arreso all’incedere del tempo. Quel pomeriggio mi ero recato a Goodison Park per assistere al derby con il Liverpool. Non seppi mai il risultato di quel match, perché la morte mi colse all’improvviso sulle tribune dello stadio che mi aveva visto protagonista per quattordici lunghissimi anni. Lo sceneggiatore che scrive le trame delle nostre vite ha voluto farmi esalare l’ultimo respiro proprio nella gara più sentita dai tifosi. Devo ammetterlo, il finale della storia mi è piaciuto parecchio.
William Ralph “Dixie” Dean
Luogo e data di nascita: Birkenhead (Inghilterra), 22 Gennaio 1907
Luogo e data di morte: Liverpool (Inghilterra), 1 Marzo 1980
Periodo d’attività: 1923/1940
Gare ufficiali: 497
Reti ufficiali: 436
Nazionale: 16 presenze, 18 reti (Inghilterra)
Palmarès: 2 scudetti inglesi, 1 Coppa d’Inghilterra, 2 Community Shield (Everton)
Premi individuali: Capocannoniere campionato inglese (2)
Record: maggior numero di reti in una stagione nella massima divisione inglese (60), miglior marcatore all time Everton (383 reti)
Elkann non morde…
Non sono mai stato un fan di Allegri, anzi. L’ho sempre considerato mediocre come allenatore e poco più che discreto come gestore di uomini. Fatta la necessaria premessa credo che il problema della Juve non sia chi siede in panchina, ma la dirigenza.
Del resto la folle decisione di richiamare il livornese che ha come unico schema di gioco “halma”, è stata del presidente che tutto il terzo mondo ci invidia.
Allegri era già inadeguato due anni fa, figuriamoci adesso, con una squadra ancora più debole.
Vogliamo poi parlare di una campagna acquisti fallimentare, cominciata con l’ingaggio di Pogba, ex calciatore da almeno due stagioni e in più afflitto da costanti fastidi fisici?
Proseguita con l’arrivo di Di Maria, giocatore dal talento indiscutibile, il cui unico ed ultimo obiettivo in carriera è vincere il Mondiale.
Proprio per questo ha scelto di svernare nel campionato più comodo dei cinque principali europei dove, visto il livello dei difensori, può riposarsi in pace tirando fuori ogni tanto dal cilindro qualche giocata delle sue.
Vogliamo poi disquisire dell’acquisto di Bremer, uno che non faceva la differenza neppure nel Torino, pagato una cifra fuori da ogni logica?
Per il resto, Kostic e Milik possono anche avere un senso, ma non sono giocatori in grado di spostare gli equilibri.
Ricapitolando, dopo un mercato del genere, peraltro avallato da Allegri, mi dite a cosa servirebbe cacciare l’allenatore?
Pensate seriamente che un Tuchel, altro tecnico sopravvalutato, cambierebbe le prospettive?
No, no e poi no.
Questa Juve, indebitata fino al collo, ha problemi strutturali.
A cominciare dal suo proprietario: do you remember Calciopoli?
La situazione, come diceva qualcuno, è grave ma non è seria.
La soluzione si chiama competenza e non porta certo il nome di Arrivabene e neppure, dispiace dirlo, di Nedved.
Qualcuno dirà: e i nove campionati vinti?
Risposta facile: agevole mettere trofei in bacheca quando gli avversari latitano.
Oggi che i rivali hanno acquisito forza e consapevolezza, bisognava alzare il livello.
Invece la Juve è riuscita addirittura ad abbassarlo.