Buon Natale

Buon Natale

Anche se è un pessimo Natale

Buon Natale

a chi non ha più voce

a chi piange in silenzio per non farsi sentire

Buon Natale

a chi ha spento la luce

sperando di chiudere gli occhi e  poi morire.

Buon Natale

a chi non ha niente

solo una fragile speranza

Buon Natale

alla moltitudine di gente

che ne ha ormai abbastanza.

Di questo Paese senza futuro

di questo mondo squallido e insicuro

di questo inverno lungo quarant’anni

dei due Letta, Enrico e Gianni.

Di questo Paese senza giustizia

di questa politica immondizia

di questa informazione truccata

di questa eterna rapina a mano armata.

Buon Natale

Anche se è un pessimo Natale

Buon Natale

a tutti gli animali che non ci sono più

e che oggi contano le stelle.

Buon Natale

perchè siete scolpiti nel mio cuore

e in ogni centimetro della mia pelle.

Arrivederci, Madiba

Trovo che la gente, specialmente i giovani, faccia un uso indiscriminato dell’aggettivo mitico. Eppure viviamo tempi mediocri e moralmente – per usare una perifrasi – disdicevoli. Chi scrive può vantarsi di non aver mai sprecato l’appellativo, riservandolo solo a coloro che hanno lasciato un segno indelebile della loro presenza. Per farla breve, nel mio Pantheon virtuale ci sono Sandro Pertini, Martin Luther King, Ennio Flaiano e Josè Mujica, presidente dell’Uruguay. Ma, soprattutto, c’è lui, il più grande di tutti. Nelson Mandela. Un uomo che, al di là di ogni retorica, ha davvero combattuto per un mondo migliore. Una vita intera dedicata alla lotta contro l’apartheid. 27 anni di carcere duro in nome di un principio. Sempre con il basso profilo della saggezza. E con la pazienza di chi sa di avere ragione. Niente smanie di protagonismo, nessun attaccamento al potere e ai beni materiali. L’interesse collettivo come unico dogma. Perchè Mandela era un vero statista. L’esatto contrario dei piccoli uomini che hanno governato e governano il nostro malandato Paese. Madiba se n’è andato con la stessa dignità con cui ha combattuto l’apartheid. Trovo che la gente faccia un uso indiscriminato anche del sostantivo femminile libertà. Ma poche persone possono permettersi di pronunciare quella parola guardandosi allo specchio. Ecco, da oggi, nei dizionari, alla voce libertà, vorrei ci fosse scritto “sinonimo di Nelson Mandela”.

Giornali

Un giornale non è un prodotto come tutti gli altri. Un giornale dovrebbe rappresentare qualcosa di nobile. Un giornale dovrebbe avere principalmente rispetto per i propri lettori. Come si rispettano i lettori? Separando i fatti dalle opinioni, con l’obiettività, col coraggio, con la fantasia, con la preparazione dei giornalisti, con la capacità d’indignazione. Giusto cercare di vendere tante copie, ma senza mai cavalcare gli umori del bacino d’utenza. Quindi affrontando i problemi anche quando farebbe più comodo nasconderli sotto il tappeto del salotto, quindi graffiando le pareti del potere: anche a costo di farsi male. Quindi proponendo inchieste scottanti e documentate, quindi fornendo al lettore tutti gli elementi per comprendere dove sta andando il mondo. Siamo fortemente convinti che un giornale così rischierebbe di avere un successo strepitoso. Invece, da sempre, i direttori dei giornali tendono a sottovalutare l’intelligenza degli italiani. E quindi propongono prodotti che strizzano l’occhio ai potenti. Pagine scialbe e piene di luoghi comuni, senza un barlume di creatività. Articoli scritti da gente faziosa ed incompetente. Vogliamo dirla tutta? Senza il finanziamento pubblico, molti giornali, anche i più celebrati, sarebbero costretti a chiudere i battenti. Tutti a lamentarsi per la scarsa propensione alla lettura dell’italiano medio. Nessuno che si preoccupi della salute di questa democrazia malata. Ridotta in fin di vita anche grazie alla complicità dei giornali.

Pensieri sparsi disordinatamente…

In un Paese normale l’ordine dei giornalisti non dovrebbe esistere. Ma, se proprio deve, all’esame da professionista bisognerebbe testare il coraggio, l’indipendenza e il talento. Perchè sono questi i requisiti fondamentali di un vero giornalista.

Non sei tu a scegliere un gatto. E’ il gatto che sceglie te. E, quando accade, non puoi fare altro che perderti dentro i suoi occhi.

Enrico Letta, nipote di Gianni, è l’inciucio fatto persona. Faccia da democristiano bietolone, espressione inutilmente pensosa, ha trascorso la sua vita inneggiando allle larghe intese. Nella sua cameretta, in bella mostra, il poster di Napolitano, l’unico uomo al mondo che poteva dargli l’incarico di Primo Ministro. A pensarci bene anch’io gli avrei dato un incarico: pulire i cessi di Montecitorio.

La strategia della distrazione.
L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Noam Chomsky

Le bugie hanno le gambe di Brunetta…

Berlusconi è perseguitato dalla Magistratura, PD e PDL si odiano, Ruby era la nipote di Mubarak, Alfano non sapeva, la Bonino neppure, Renzi è uno statista, Massimo Giletti è un presentatore, Ligabue un genio della musica, Giaccherini il nuovo Garrincha e Alba Parietti non si è mai rifatta. Le bugie hanno le gambe di Brunetta, ma gli italiani se le bevono tutte senza fiatare. Oggi tutti in spiaggia a prendere il sole: la rivoluzione può attendere.

Coppa Campioni Story

A fine Giugno uscirà il mio tredicesimo libro “Coppa Campioni Story”, Curcio editore. Tengo molto a questo volume, per tanti motivi. Auguro a chi lo leggerà di provare le stesse vibrazioni che il sottoscritto ha ricevuto scrivendolo.

 

“Coppa Campioni Story” è un libro che affonda le sue radici nella nostalgia. Un viaggio affascinante, lungo le strade della memoria, per raccontare 60 anni di calcio attraverso la storia della Coppa dalle grandi orecchie. Tutti i risultati (anche quelli dei turni preliminari), tutti i marcatori, una miriade di curiosità e statistiche, tutti i records all time, le formazioni delle finali e i profili dei maggiori protagonisti della competizione oggi denominata Champions League. Tutto racchiuso in un unico, imperdibile volume. Perché i ricordi, specie quelli più cari, vanno custoditi con attenzione.

La solitudine del pallone

Non mi sono mai considerato un tifoso. E nemmeno, come si usa dire oggi, un “cliente”. Per 40 anni ho semplicemente amato il calcio e la Juve. Svisceratamente. Ma senza rinunciare ad essere me stesso. La mia passione non è mai scesa a compromessi. Altrimenti sarebbe diventata schiavitù. E non si può essere prigionieri di ciò che si ama. Quando ero bambino, coi volti delle figurine Panini occultati dalla mano di mio padre, riconoscevo i calciatori dalle scarpe. In fondo, come spirito, sono rimasto quello di allora. Però il calcio è cambiato. Parecchio. Non esattamente in meglio. Come se il pallone ci fosse sfuggito dai piedi, per finire nel cortile di gente senza cuore e senz’anima. “Ragazzino, questo pallone non è più tuo. Adesso lo taglio in due e poi lo butto nel cassonetto dei rifiuti”.
Reminiscenze di un’infanzia disagevole, trascorsa sui marciapiedi di una periferia ansimante. “Andate a giocare da qualche altra parte. Altrimenti, la prossima volta, faccio a pezzi voi”. Seguivano ghigno beffardo e clamore di porta sbattuta. In fondo, le facce dei “bruti” che s’impadronivano dei nostri palloni, assomigliano terribilmente ai visi delle persone che hanno devastato il calcio. E quindi il nostro sogno. Presidenti, dirigenti, faccendieri, politici, procuratori, allenatori, calciatori. Una carovana di gente scriteriata. Che ha distrutto il gioco più bello del mondo.

Il Pathos

Secondo il pensiero greco, l’animo umano è regolato da due forze contrapposte: il Logos e il Pathos. Il Logos è la parte razionale, il Pathos quella irrazionale. Il Logos, regno del calcolo e della logica, non mi affascina. Per questo, nella vita, cerco sempre il Pathos. Un fantastico viaggio verso l’ignoto. Un mistero avvolto nella spontaneità. Cerco il Pathos nella musica: una canzone, per colpirmi, deve accarezzare la mia anima. Cerco il Pathos nel cinema: un film, per piacermi, deve insinuarsi dentro le mie vene. Cerco il Pathos nella letteratura: un libro, per catturarmi, deve lambire i quattro angoli del cuore. Che cosa meravigliosa, il Pathos. Una sensazione che si rinnova ogni mattina, quando porto del cibo ad un manipolo di gatti di strada. All’inizio erano, giustamente, diffidenti. Adesso riconoscono il suono dei miei passi e mi vengono incontro, con la speranza stampata sul muso. Mi circondano, attendendo con pazienza il clic della scatoletta che si apre. E poi cominciano a mangiare, con una voracità che riempie gli occhi. Ecco, in quei momenti, mi ritengo un privilegiato. Perché non è facile entrare nelle stanze magiche del Pathos. Ed io, grazie ai piccoli felini, ogni giorno riesco a varcare quella soglia per qualche minuto. Poi, fatalmente, devo tornare alla routine del Logos. Ma l’immagine di quelle creature che mi vengono incontro, scolpita nella mente, mi aiuta ad affrontare anche le giornate più dure.

Goodbye Sir Alex

La prossima Premier League, per la prima volta nella sua storia, non vedrà quindi ai nastri di partenza Sir Alex Ferguson. Si tratta di una svolta epocale: sia per i red devils che per il calcio inglese. L’uomo nato a Govan, sobborgo di Glasgow, fu il primo manager a vincere la Premier, istituita nella stagione 1992/93. Sarà solo una combinazione ma, esattamente vent’anni più tardi, dopo aver regalato al Man U il ventesimo scudetto, Sir Alex ha deciso di chiudere la sua scintillante carriera. Carriera che i numeri raccontano meglio delle parole. Il tecnico scozzese, che allena dal 1974, lascia la panchina del Man U dopo 27 anni e 38 trofei. Titoli che diventano 48 se calcoliamo anche i successi ottenuti dallo scozzese alla guida dell’Aberdeen. Un bilancio maestoso. Quando Ferguson sbarcò all’Old Trafford, il Man U aveva in bacheca appena 7 scudetti e gli acerrimi rivali del Liverpool (a quota 18) sembravano lontani un’eternità. Vent’anni dopo, complice anche la crisi dei reds, il Man U è balzato al comando. E pare non abbia alcuna intenzione di fermarsi. Oltre alle vittorie, infatti, Sir Alex ha portato in dote organizzazione, idee e programmazione. Elementi che assicurano al Man U, oltre al notevole presente, anche un fulgido futuro. Sir Alex ha consegnato personalmente il testimone al cinquantenne David Moyes, altro scozzese di Glasgow, reduce da 11 buone stagioni all’Everton: nessun trofeo ma gioco più che discreto, nonostante le difficoltà economiche del club. Moyes, che vanta nel palmarès personale solo una promozione in Championship con il Preston, in queste ore si sentirà come l’uomo che ha appena vinto il primo premio alla lotteria.